Krystyna Lenkowska
LA CATTEDRALE DI SANDOMIERZ CON LA LUCE D'ITALIA
In prosa poetica o in rime, i poeti dichiarano pubblicamente il proprio amore alle cattedrali italiane e francesi in maniera così suggestiva che poi i lettori, durante i loro viaggi per l’Europa, si spostano ispirati con volumi di poesie o di saggi anziché guide turistiche sottobraccio, alla ricerca di quelle chiese, di quei sospiri poetici. La descrizione che gli artisti danno del mondo è dichiaratamente di parte, aspira a una trasformazione poetica della realtà e in questo si differenzia dal lavoro dei classici studiosi di storia, architettura, teoria dell’arte: è una descrizione complementare allo studio accademico e non si astiene dalle valutazioni personali. Un poeta che ha pochi pari nel modo di descrivere i monumenti dell’Europa è Zbigniew Herbert. Presa da un sentimento particolare per la sua raccolta Il barbaro nel giardino ho provato a guardare l’Italia con gli occhi di un barbaro. Tra le cattedrali “di Herbert” a colpirmi maggiormente è stato il Duomo di Orvieto. A parte le ovvie meraviglie che questa chiesa nasconde, sulle quali diligentemente si può attingere informazioni da diverse fonti, sono state piuttosto le poetiche descrizioni di Herbert a piovermi addosso come scese da una navata divina e a segnare il mio primo viaggio in Italia.
Per una serie di circostanze il mio cammino letterario verso Sandomierz è stato tortuoso: ci sono arrivata passando per l’Italia. È iniziato in maniera inaspettata dalla poesia di Mario Luzi, del quale ho avuto occasione di leggere le Meditazioni sulla via Crucis nella chiesa di San Giacomo a Sandomierz. La fermata successiva è stata a San Gimignano in Toscana, dove per un periodo visse e scrisse un grande autore polacco, Jarosław Iwaszkiewicz, che fu molto legato anche a Sandomierz. Ho adesso davanti a me un viaggio ad Orvieto, questa volta sotto il segno di un legame luminoso tra il suo Duomo e la Cattedrale di Sandomierz. Paradossalmente, fino a poco tempo fa sapevo molte più cose sul Duomo di Orvieto che su quello di Sandomierz, nonostante la città polacca si trovi a due passi dai luoghi in cui vivo. Oggi colmo queste lacune con amore.
Per alcuni secoli Sandomierz è stata una città reale, importante non solo sulla mappe polacche. Con i suoi numerosi monumenti architettonici di epoche diverse e col suo assetto urbano rinascimentale, a prima vista può sembrare una cittadina storica d'Italia. La chiamano “Piccola Roma”, perché si estende su sette colli.
La Basilica Cattedrale di Sandomierz, perla dell’architettura sacra del primo gotico si trova sul colle detto “della Collegiata”. Dal terrazzo rivolto a sud si estende una delle vedute più belle sulla valle della Vistola. La Cattedrale è innanzi tutto un luogo di culto. Vi giungono i fedeli, ma anche i turisti curiosi dei suoi tesori. Vogliono vedere le spettacolari volte a crociera rinforzate da costoloni, con chiavi di volta originali decorate con temi araldici, il coro, considerato un eccellente esempio del Barocco, o la statua perfettamente modellata del sottocoro, che rappresenta il re David.
Cosa è che qui più mi affascina? Sono incantata dal Rinascimento italiano e in particolare dalla pittura epica con la sua semplicità formale. Viaggiando per l’Europa sulle tracce di Piero della Francesca non ho potuto fare a meno di visitare la Chiesa di San Francesco ad Arezzo e l‘incredibile affresco con la Storia della Vera Croce. Per quanto sia difficile attribuire all‘artista l’eredità creativa della maniera greca (tutto ciò che è diverso e all’avanguardia) mi sento di affermare che lo spirito di Bisanzio è lì presente. E vorrei seguire oggi questa comunanza artistica della luce in un percorso all’indietro, dalle opere dei maestri italiani del Rinascimento verso gli affreschi medievali nella Cattedrale di Sandomierz. Un Piero della Francesca visto come modello dei maestri bizantini non sarà un freno alla nostra fantasia, anzi permetterà a ognuno di vivere la leggenda della Croce a modo suo, senza imporre una psicologia dei fatti: lascerà un campo libero con dei segni che ci indicheranno come leggervi la forma, i volumi, la prospettiva e la luce. Impressioni similmente metafisiche ho provato davanti agli affreschi nella Cappella della Madonna di San Brizio a Orvieto. Del resto il loro autore fu l’allievo prediletto di Piero, Luca Signorelli, “la cui luce viene sempre dall’esterno. Le cose e le persone sono contenitori di buio“.
Sandomierz
Quando scrivo d'Italia vedo e sento ancora quella luce. Ho dedicato un capitoletto di un mio saggio “italiano“ al Duomo della città umbra e l’ho intitolato “il vino, Orvieto e il Giudizio Universale“. Potrei dare un titolo così frivolo a un testo su Sandomierz? Potrei pensare in maniera simile alla Cattedrale di Sandomierz, che è elemento di un paesaggio storico, architettonico ed estetico che mi è famigliare? Sandomierz è una meta popolare delle scolaresche in gita e la Basilica della Natività della Santissima Vergine è una tappa naturale durante queste visite. Per i ragazzini delle elementari ogni attrattiva turistica non può gareggiare in popolarità con la Chiesa di San Giuseppe, nella cui cripta riposava (e riposa tuttora, come se dormisse) la figlia del Voivoda, Teresa Isabella Morsztyn. Questa diciottenne, per un miracolo della sorte, quasi non mostra tracce di decomposizione, deliziosa e attraente nel suo bel vestito, da quasi trecento anni, da quando morì poco dopo avere fatto voto di castità, per non finire in balia dei corteggiatori. Maturando e diventando culturalmente più consapevole, ho iniziato spontaneamente a vedere con più attenzione le chiese come oggetti religiosi e artistici in sé. E mi affascinano sempre di più i monumenti di arte sacra, un tempo tediosi, oggi per me impressionanti.
Mi chiedo se riuscirei a guardare ai luoghi di culto polacchi con la libertà e leggerezza con le quali guardo le cattedrali italiane o francesi. In Polonia mi sento spesso sopraffatta dall’infelice storia di questo paese e solo all’estero (purché non negli ambienti dell’emigrazione) riesco a liberarmi di quella mentalità nazional-clericale e martiriologica di cui faccio parte, che mi piaccia o no. Ma potrei provare, usando la ragione, a liberarmi dall’eredità slava di tale filosofia della paura, da quell’interesse per l’idea dell’inevitabilità del male che troviamo nel russo Dostojevskij e nel polacco Miłosz? (O forse hanno ragione quelli che dicono che l’anima slava è fantasia ed esaltazione?) Potrei ignorare l’immagine della “valle di lacrime“ della chiesa cattolica polacca proprio in questa cattedrale gotica che Casimiro III il Grande fondò per espiare la condanna a morte per annegamento del vicario di Cracovia. Fin dall’inizio la chiesa, che fu romanica, venne saccheggiata dagli eserciti mongoli, russi, lituani. I tatari massacrarono gli abitanti di Sandomierz che si rifugiarono tra le mura della Collegiata e sorpresero i Domenicani durante la preghiera del mattino. “Il sangue sgorgava a fiumi e le acque della Vistola si fecero rosse“ scriveva nel Quattrocento Jan Długosz, il famoso cronista polacco. I superstiti seppellirono i morti e per i secoli a seguire vissero portando il segno del martirio. Molte volte ancora su Sandomierz si abbatterono invasioni straniere, e anche incendi, alluvioni ed epidemie. A metà del XVII secolo l’esercito svedese in ritirata fece saltare in aria il Castello, con gravi conseguenze anche per la Collegiata. Così, in sintesi telegrafica, si presenta una parte della tragica storia della Cattedrale di Sandomierz. Un Bignami del catastrofismo.
Ma veniamo alla parte più luminosa della storia. Il re Ladislao Jagellone viene ospitato più volte nella Collegiata. Si ferma qui mentre va alle sue nozze con Edvige. Come segno di riconoscenza per il valore dei cavalieri di Sandomierz nella Battaglia di Grünwald porta un prezioso dono da lui conquistato: il reliquiario con Legno della Santa Croce. Il rango della chiesa viene così innalzato. Di iniziativa privata, la bottega del maestro Hayla di Przemyśł esegue policromie russo-bizantine sulle pareti del presbiterio. Poi arrivano in città gli altri Jagelloni, insieme al Rinascimento e allo stile portato in Polonia dalla regina Bona Sforza, italiana di cuore e di nascita. La strada reale portava alla Collegiata attraverso la Porta di Cracovia, che oggi non esiste più. Si sente l’hejnał (la chiamata a raccolta) di Sandomierz; per le strade camminano ricchi mercanti, artigiani, orefici, farmacisti, medici e anche il boia; le cantine sono piene di merci, a primavera si respira il profumo degli albicocchi. Nell’interno barocco della Cattedrale pregano i dignitari del clero, la nobiltà terriera, i borghesi, i commercianti di sale, vino e tabacchi, il popolo. Tutti uguali davanti a Dio, come simboleggia questa Hallenkirche in cui le navate hanno tutte la stessa altezza. I maestri artigiani delle pietre dure da Czerna presso Cracovia creano altari unici e portali di marmo nero e rosa. Nel XVIII secolo l’eccellente bottega del maestro Maciej Polejowski di Leopoli crea una serie di splendidi altari laterali, statue e consolle in stile rococò.
Ars moriendi
Tra le cose che possono interessare il turista nella Cattedrale della Santissima Vergine le più sensazionali sono i giganteschi dipinti del ciclo Martyrologium Romanum eseguiti all’inizio del XVIII secolo da Karol de Prevot e dai suoi allievi. Ognuno di essi rappresenta una sorta di studio sullo sterminio. E, se per la tematica richiamano alla mente i Giudizi Universali del Rinascimento o le danze macabre di Bosch, d’altro canto ne sono una parodia involontaria per il loro sincretismo e per il loro valore artistico non troppo elevato. Inutile cercare qui l’umorismo escatologico del Signorelli a Orvieto. De Prevot dipingeva su commissione, alla maniera religioso-didascalica dei suoi tempi, il che lo giustifica, ma solo in parte. Ognuno dei dodici quadri di questo particolare “calendario“ religioso mostra l’ineluttabilità della morte come nei frammenti di uno specchio. È l’agonia moltiplicata in tempi e luoghi diversi di santi màrtiri della Chiesa universale, segnati da un numero come bestie al macello, riuniti in una scena di orrore corale. È l’unico esempio al mondo di martirologio in forma pittorica su così larga scala.
Il suo fascino ancora attuale sta nel fatto che chi cede alla tentazione pagana del disfattismo (che per i polacchi non è mai abbastanza) può indovinare, scegliendo il quadro che più lo rappresenta, in che modo finirà la sua vita. Per esempio, a dare retta a questa profezia, io dovrei spirare inchiodata e soffocata fra due tavole di legno. Mi consola il fatto che qui tutti muoiono, in un modo o nell’altro, purché fantasioso: annegati con una pietra al collo, squartati, con la gola tagliata, il corpo arrostito. In questo consiste la metafora atemporale di de Prevot, che attrae chi è sensibile al fascino dalla morte o brama adrenalina.
Alle pareti sotto il coro troviamo altri quattro dipinti dello stesso autore, inseriti nel ciclo sul martirio della chiesa locale. Tre di essi hanno evidenti riferimenti storici, mentre il quarto si basa sulla falsa leggenda, tramandata oralmente e diffusa fino all’altro ieri in Europa, secondo la quale gli ebrei uccidevano i bambini cristiani per scopi rituali. Bisogna dire che i rapporti quotidiani fra il clero e gli ebrei erano tutt’altro che armoniosi, il che era per certi versi un segno dei tempi, ma non può essere preso come fenomeno rappresentativo della società polacca o sandomierzana. Il quadro ebbe un committente committente ben preciso: Stefan Żuchowski, arcidiacono e parroco di Sandomierz. Rimuovere il dipinto dalla Cattedrale non è a mio avviso una buona idea, così come non lo è distruggere i monumenti innalzati dai totalitarismi. Le testimonianze del regresso, della xenofobia e dell’infamia dei tempi passati dovrebbero restare in quanto messaggio di vergogna e di monito. Considero l’evangelizzazione un dialogo senza imbarazzi su qualsiasi argomento e sarebbe bene che l’iconografia negativa fosse oggetto di discussione e materia di educazione storica.
Ma è ora, dalle zone oscure della Cattedrale, di tornare alla luce.
Lampi rococò
Quanto diverso era l‘ethos morale ed estetico, oltremodo mondano, del successivo parroco della Cattedrale: circa 37 anni dopo, vicino agli altari, furono sistemate quattro figure con diademi che rappresentavano le quattro virtù cardinali. Un particolare spirito ecumenico si percepisce nelle figure di un altro ciclo di Polejowski che rappresenta la Chiesa e la Sinagoga collocato su alti zoccoli agli angoli delle navate. La scultura che simboleggia l’Ecclesia si trova nella navata meridionale e tiene in mano la tiara papale. Per compensare ed equilibrare, nella navata settentrionale troviamo una figura che simboleggia l’Antico Testamento e che probabilmente in origine teneva in mano le tavole della Legge. Le sono rimaste le mani vuote, con le dita in dubio, come se sollevassero nel vuoto un oggetto invisibile. Non abbiamo tuttavia prove fondate dell’esistenza di queste tavole. C’è un’altra ipotesi, secondo la quale per qualche motivo la concezione iconografica degli altari non fu mai completata e fin dall’inizio le mani delle figure sante erano ferme nell’attesa.
Per me particolarmente incantevoli sono gli altari laterali accanto ai pilastri delle navate, illuminati dalla luce che entra dalle vetrate, alte e snelle finestre su enormi mura gotiche. È la quintessenza della maestosità rococò. Singolarmente raffinati e affascinanti sono quei mostriciattoli e basilischi, all’apparenza agli antipodi dell’ascesi, eppure di francescana affabilità. Dei movimentati putti allegorici fanno i leziosi in pose ricercate: sono frivoli, ma al tempo stesso rendono ossequio. Onde marine finemente lavorate, lingue di fuoco, conchiglie crestate, foglie di palma e di acanto, cartigli della forma di un seme di fagiolo: sono decorazioni che stupiscono, ma fanno spuntare anche un sorriso sulle labbra, un calore vicino al cuore. La danza aerea è manierista nello stile, gioiosa ed elegante. L’arte barocca nella sua fase estrema, ricca, grondante ori dalle sfumature favolosamente elevate, densa di sontuosità, luminosa, riempì ogni spazio vuoto della chiesa gotica, secondo lo stile dell’epoca. Il rococò nel contesto di una severa, mitigata policromia bizantina ha la sua motivazione geografica e storica, ma porta anche il marchio dei gusti individuali, della devozione e della fantasia di mecenati e parroci.
Il rumore di una porta che si apre mi ricorda che ero rimasta qui da sola e mi ero dimenticata del mondo. Entrano delle persone, forse turisti e facendosi il segno della croce stabiliscono che la sfera del profanum è rimasta fuori dal portale della chiesa. Alla ricerca della luce vado verso il passato, verso il punto in cui ebbe inizio questo tempio e guardo in alto.
Il sonno di Maria e Gesù con la fanciulla
L’opera d’arte più preziosa è una policromia russo-bizantina che si trova sulle pareti del presbiterio e sulla volta sopra l’altare centrale. Il mio affresco preferito – ma esso affascina tutti, sandomierzani e turisti – mostra la Santissima Vergine che si addormenta. È la scena più grande dell‘intero ciclo di storie della vita di Maria e di Cristo. L’insieme crea una storia particolarmente interessante e ricca che si sviluppa su quattro livelli, sulle superfici di tutte le volte e le campate, irradia una fresca gioia pasquale. Testimonia la sua originalità il fatto che esso viene considerato “l’unica opera di questo tipo a mostrare in pieno tutto il canone della pittura bizantina su questo argomento“. “L’unica da qui fino ai Balcani“, aggiunge una nota guida di Sandomierz, quando visito la Cattedrale per l’ennesima volta, ma finalmente con qualcuno ben preparato.
Non molto tempo fa mi è capitata fra le mani una bellissima storia sulla giovinezza della Madonna, descritta da Erri de Luca nel libro In nome della madre. Il racconto è così attuale che i dubbi della giovane coppia, una Maria che si trova improvvisamente incinta e un Giuseppe esposto allo scherno dei commenti della gente del villaggio, suonano incredibilmente vicini alla mentalità di un lettore moderno. Questo ci fa iniziare a comprendere quel mondo, con tutte le sue finezze e le sue sfumature, anche se è lontano duemila anni. E ci fa pensare che, al di là del tempo e dello spazio, siamo tutti legati da una comunanza metafisico-esistenziale, piena di simboli e metafore. Il romanzo In nome della madre è di una semplicità formale quasi ascetica, è come se de Luca avesse scritto un’icona medievale.
Ed ecco che oggi, qui sulla parete della Cattedrale di Sandomierz, incontro il seguito di questa storia, narrata in una lingua altrettanto semplice e di una bellezza altrettanto straziante. Maria giace sul letto, al centro del quadro; su di lei, facendo il segno della croce, c’è il figlio, con in braccio una fanciulla circondata da una materia bianca, che simboleggia la purezza e la divinità. La luce del candore si espande, penetra la luce che filtra dalle finestre, dando un’impressione di atemporalità. Quella fanciulla è l’anima della madre. Maria è morta, ma è nata per il cielo e il messaggio di quest’opera è del tutto lieto, anche se nella pittura di questo periodo non si può parlare di un’espressività psicologica dei personaggi raffigurati. L’espressione è nel volume, nel gesto, nella luce. Essa emana dal dipinto stesso, dal suo lucidus ordo, l’ordine limpido della luce e dell‘ equilibrio. Uso questa lente per leggere anche la luce rinascimentale degli affreschi italiani; per questo oggi guardo “Il sonno di Maria“ con una curiosità che mi riporta ai brividi che un tempo provai davanti alle storie di Piero della Francesca e Luca Signorelli. Come fossero state di carne e ossa, erano segni divini che portavano al segreto, e la chiave era sempre la stessa. La santità che si divarica per toccare insieme il cielo e la terra. Ed è difficile non pensare al fatto che da un lato le pitture di Sandomierz sono divise da un periodo di soli trent’anni (o di ben trent’anni) dagli affreschi rinascimentali di Arezzo e di ottanta da quelli di Orvieto; d’altro lato sono divise da un’intera epoca artistica.
Non credo ci possa essere un posto migliore di una Cattedrale intitolata alla Natività della Santissima Vergine Maria per questa policromia dedicata alla Madonna.
Ladislao Jagellone, da un lato valente guerriero, vero rex armatus, dall‘altro uomo interesato alla cultura, all’idea di unire l’Oriente all’Occidente, contribuì alla ricercata illuminazione della Cattedrale di Sandomierz con l’aiuto della luce interna degli affreschi bizantini. Il fatto che abbia tradotto in lituano, sua lingua madre, il Padre Nostro e il Credo, ci mostra che quest’uomo era molto religioso e interessato acciocché regnasse un’aura di ecumenismo. Sarà stato forse anche un mistico, come gli autori di questi quadri iconografici?
Le gru sui sette colli
Oggi è il quattro marzo e le prime gru selvatiche sono volate in cielo. Tre chiavi… quattro… cinque. Una dopo l’altra. Mi trovo davanti al Castello e a sinistra vedo la Cattedrale, con la sua affascinante piccola campana intagliata che sembra troppo leggera, troppo delicata rispetto al corpo pesante della costruzione; e allora si stacca, prova a salire in alto, allungando verso il cielo il suo becco sottile, verde, luminoso. E questa consonanza di gotico antico e neogotico mi sembra qualcosa di commovente. A destra il cielo, dove le gru volano con una determinazione e una abitudine tali, come se niente fosse cambiato da centinaia di anni, come se non ci fossero state guerre, diluvi e papi. Ogni anno gli stessi flussi dell‘aria, il richiamo di quello stesso vento dai mari e dagli oceani. Questo stesso sentiero e il suo posto nell‘insieme.
Il vento appena un po‘ gelido di marzo si illumina della primavera che viene da sud. È un buon segno, perché qui, diversamente che in Toscana o in Umbria, il sole primaverile è capriccioso come una donna al novilunio. Bisogna afferrare ogni raggio e tenerselo stretto per i tempi meno felici. Chissà quando mi capiterà ancora di illuminare una cattedrale, dentro di me o dentro agli altri.
traduzione di Leonardo Masi
Questo saggio è stato pubblicato nell'originale, cioè in polacco,
in PAMIĘTNIK SANDOMIERSKI n. 4,
Editore: Museo Regionale di Sandomierz, VOLUME IV, 2012
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